I sensi fantastici e il ritorno alla memoria

A Roma, in un tempo compreso tra l’86 e l’82 a.C., un maestro di retorica, la cui identità per ironia della sorte è ancora oggi ignota, scrisse l’Ad Herennium, un manuale dedicato ai suoi giovani allievi, futuri oratori forensi. Nella parte dedicata alla memoria, definita come arca e tesoro delle invenzioni, consegnò alla storia il primo trattato che l’uomo conosca sull’arte della memoria e del ricordo che, per essere lo strumento di cui l’uomo si è servito in tutte le attività, che ha celebrato in tutte le arti e che ha applicato in tutte le scienze, è entrata nella tradizione della nostra cultura come Ars Magna: un’arte che non ha un argomento preciso, ma che, essendo applicabile a tutte le forme del sapere ed a tutte le espressioni dello spirito, tutte le comprende.
Il misterioso manuale, frammento magico e meteoritico del pensiero d’Occidente, non è l’atto di nascita alla storia per l’Ars Memoriae, già in Grecia Aristotele affermava, in uno scritto ( De Memoria et Reminiscentia ) che precede il suo trattato sulla percezione sensoriale ( De Anima ), che tutto ciò che l’uomo apprende proviene dai Sensi ma, prima di essere elaborato dall’ intelletto come pensiero, dall’immaginazione viene trasformato in Immagine, in un luogo dello spirito che è appunto la Memoria: questo sono dunque i ricordi, immagini mentali di cose passate con in più l’elemento temporale.

Da qui  l’idea di un’installazione, nella quale la Poesia di Antonio D’Agostino e la Fotografia di Mauro Di Schiavi realizzino un’unità formale, grafica ed espositiva attraverso la quale intraprendere un itinerario di interpretazioni molteplici sulla relazione tra la memoria e la percezione sensoriale.
In tale percorso, il linguaggio fotografico, grazie alla ricchezza dei colori, agli ingrandimenti ed alle inquadrature, riesce a trasformare le cose e le figure e a ricreare un mondo meraviglioso, in cui gli oggetti stessi vengono liberati dalla necessità quotidiana  di essere utili, liberando a loro volta forme belle e suggestive.

Un mondo semmai minuscolo in cui il piccolo ciondolo diventa il Dio dell’ olfatto che emerge da un’ atmosfera cristallina e particellare. Un piccolo componimento Aiku  racconta  in tre versi, quasi tre fotogrammi, il complesso avvenire di un’esperienza di memoria olfattiva.

Olfatto
Olfatto
Vento dal mare.
Lo annuso assorto
come da bimbo.

Un mondo sensuale in cui una bocca enorme indugia su un gusto in conoscibile. Il tema del ritorno all’infanzia, in forma di filastrocca,  muove dalla consapevolezza che la condizione del presente, la condizione della ragione e del pensiero, è una condizione di guerra. L’invocazione alla bella bocca piccolina, che riporti ad un’era della vita in cui il gusto è un approccio alla conoscenza e all’esperienza del mondo, anche se disgustoso come il sapone o il terreno, è lontana dalla dimensione dell’eros e della sensualità presente nell’immagine fotografica.

Gusto
Gusto
Bella Bocca che assapori
tutti i gusti della terra,
dammi un bacio e tranquillizza
tutti i miei pensieri in guerra.
Fammi un poco ritornare
con la testa a quei momenti
che vivevo spensierato
senza pena ne’ tormenti.
Vorrei tanto riassaggiare
i miei cibi di bambino,
la pastina al pomodoro,
quella con il formaggino.
Vorrei poi riassaporare
della nonna mia il ragù,
di zia Marta le polpette,
ed il suo tiramisù.
Or mi tornano alla mente
quelle assurde caramelle
che fan tanto male ai denti
merendine, pastarelle,
la mia lingua contro il vetro,
se bevevo alla bottiglia,
il terreno del giardino,
il sapone di Marsiglia.
Queste ed altre son le cose
che mettevo sempre in bocca,
e tornando a quegl’ istanti
l’emozione il cuor mi tocca.
Dunque grazie per la gita
che mi hai appena regalato,
bella Bocca piccolina,
Ti sarò per sempre grato!

Un mondo inedito, eppure quotidiano, in cui il tatto è il fuggevole  sfiorarsi di due manichini in una vetrina. All’immagine tenera si contrappone un brano di prosa triste e dura, nel quale un uomo solo per un istante riesce, grazie al riemergere di un ricordo d’infanzia, ad attingere a quella dimensione di gioia, che l’isolamento e la solitudine gli avevano ormai negato, ma la stessa percezione tattile che gli aveva riportato alla memoria  una condizione di serenità e di pace, riproposta in forma violenta, ora uccide il ricordo.

Tatto
Tatto
Il ristorante era quasi pieno, coi camerieri che schizzavano solerti da un tavolo all’altro, ovunque era un vociare, ridere, agitare forchette, urtare bicchieri, un brulicare di vita in netto contrasto con la figura dell’uomo seduto al tavolo da solo. Occhiali da sole, espressione tirata, dava la netta sensazione di provare astio e intolleranza nei confronti di chi gli sedeva intorno, era isolato. Aveva consumato il pasto con estrema lentezza, seguendo il filo di pensieri grigi che gli si presentavano inarrestabili, sempre gli stessi, pensieri di malinconica autocommiserazione. Improvvisamente si ritrovò tra le mani questo bicchiere, era un comunissimo bicchierino da liquore, ma per lui che aveva sempre dato la massima importanza a quello che gli passava sotto le dita fu come una folgorazione; non c’erano dubbi: il bordino di metallo in rilievo, le sottili scanalature che ne solcavano il corpo in tutta la sua lunghezza, la base costituita da cerchi concentrici leggermente rientranti, era dello stesso tipo di quelli che giravano in casa sua da bambino, quelli che la mamma gli passava la domenica dopo pranzo con dentro un dito di liquore al mirto o alla fragola, e che lui afferrava tutto contento, se lo passava felice tra le mani e poi lo accostava alle labbra e buttava giù tutto d’un sorso.Per pochi istanti un mezzo sorriso attraversò il volto dell’uomo bucando la maschera di tristezza che da tanto tempo ormai si era imposto. Lasciò i soldi sul tavolo, si alzò e si avviò verso l’uscita. A metà della sala picchiò con violenza uno stinco contro una sedia; qualche cliente distratto l’ aveva lasciata lì, ben lontana dal tavolo.Un dolore lancinante serpeggiò dalla gamba fino alla radice della schiena, sentì gli occhi che si inumidivano ed il viso farsi di brace. Trattenne a stento un’imprecazione tra i denti e si allontanò con passo malfermo, rifiutando l’aiuto di un cameriere che intanto era accorso e gli voleva prendere un braccio. La superficialità di un individuo aveva cancellato in lui quel leggero senso di pace che il ricordo d’infanzia gli aveva concesso, precipitandolo nella più nera frustrazione e grazie ad un semplice gesto di incoscienza ora si ritrovava con una gamba dolorante e con una disperata voglia di piangere, come se non ci fossero già abbastanza problemi nella giornata di un cieco.

Un mondo primigenio e naturale in cui la vista è un occhio appena dischiuso che ci scruta misteriosamente dalla profondità della terra. Un componimento libero si apre con dei versi in cui risuona minacciosa l’era della tecnica, nella quale il processo di colonizzazione dell’immaginario collettivo ad opera di un esercito di immagini subliminali, determinano la definitiva perdita dell’individualità, ma dove, le “verità immutabili sepolte sotto la cenere” richiamano l’occhio primitivo che nell’immagine fotografica emerge dalla terra.

Vista
VistaAssalti visivi ottenebrano la mia coscienza,
ne alterano le percezioni, modificano il mio pensiero.
Immagini subliminali aggrediscono con forza il mio mondo,
si sovrappongono alla visione reale, la sostituiscono.
Memorie di vite mai vissute riaffiorano così in me,
oggetti e luoghi propri di passati inesistenti, di futuri improbabili
riemergono.Assalti visivi risvegliano la mia coscienza.
Visioni fugaci, illusorie, distorte mascherano la conoscenza con sensazioni imperfette.
Verità immutabili attendono sepolte sotto la polvere di millenni il bagliore lancinante che alla fine arriverà,
mentre il mio essere si macera nell’attesa di eventi ipotetici, di possibili possibilità, di assurdi ricordi premonitori.
Tutto nella mia quotidiana esistenza è ripetizione;
sono nato mille volte, mille ancora morirò.

Un mondo assurdo, infine, in cui un uomo fantastico al culmine della sua ricerca spirituale, con uno sforzo immane dell’udito, tenta di ascoltare il suono impercettibile e fragoroso della vita. Proprio questa immagine segna il momento di massima convergenza tra la fotografia e la parola scritta che letteralmente l’attraversa, scegliendo tra le varie forme compositive, quella del flusso di coscienza iniziato e terminato con la parola RUMORE. Un rumore nel quale, “il suono di fuori si confonde con il suono di dentro” determinando l’incapacità di distinguere la percezione esterna che proviene dalla realtà, dalla percezione generata, dal sentimento, nel nostro animo.

Udito
Udito….rumore rumore rumore questo rumore che rimbomba nella testa e mi impedisce di pensare di capire di concentrarmi il solito rumore che sento tutti i giorni tutte le mattine appena mi sveglio almeno prima c’era lei che mi distraeva mi carezzava mi accoglieva badava a me ora invece sono solo l’ho fatta andare via la opprimevo così mi ha detto quel giorno si quel giorno che pioveva a dirotto e la pioggia ticchettava sui tetti delle auto lasciate fuori ed io che respiravo a fatica avevo il fiato corto mentre mi parlava e come adesso pensavo come faccio ora come farò come vivrò e come ora il suono di fuori si confondeva col suono di dentro ma non era proprio un suono era più che altro un rumore rumore rumore…

Concluso questo percorso c’è un invito a guardare oltre, in quel luogo dello spirito in cui Aristotele vedeva agire l’immaginazione. Per accedervi si supera il Telo Nero, il simbolo del Tempo che costringe la vita nelle cuciture ossessionanti della realtà.

Memoria

Un’immagine dolce, assolata e pacificante, vuole tradurre fotograficamente l’immagine mentale di un ricordo, della Memoria stessa, che sorge in una dimensione in cui solo il ricordo “è fonte di gioia non accompagnata dall’angoscia per la sua transitorietà” (A. Trione).

Testi – Lorenzo Mantile

Poesie – Antonio D’Agostino

Fotografie – Mauro Di Schiavi

Altre opere esposte

 

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